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Una ripida scala sale appoggiandosi ad uno sfintere orbicolare posto poco più in alto.

Attraverso esso si conquista il centro di una grande stanza tonda, ombelico di un ventre di Madre: opaca nel pavimento piano e nel soffitto cupolato, entrambi grigi.

Tutt’attorno, per l’intera altezza, un velario. Ondulato e fluttuante per effetto di flebili zefiri: bianco ma mai trasparente. Con differenti modulazioni di trama, è realizzato con disuguali tessuti: ora fittissimi e fini ora più larghi e grossi.

Attraverso quella cortina si avverte una luce, proveniente da una energia ctonia.

Il visitatore approdato alla stanza si guarda attorno disorientato: dove inizia e dove finisce la narrazione?

Quell’indeterminatezza non svaluta la percezione complessiva, che risulta gradevole ed appagante. Confortevole. Per l’immaginario visuale potrebbe dirsi compiuta: in quanto fenomeno protegge e trasmette conferme. Sembra contenere, di conseguenza, l’unica realtà conoscibile e accessibile.

Questo si vede.

Dice il visitatore “ho visto”. Oida, έίδα. “Ho visto”, “conosco”.

Ma che ha visto? Cosa conosce?

Vedere. Da qualche ignoto recesso gli sembra di sentire una voce: “vedere è toccare”.

Dunque si insinua il dubbio se quel velario piuttosto che essere l’immagine visibile possa invece essere il medium: come il velo di Iside e di Maya.

Il visitatore comincia a chiedersi se quel velo-fenomeno possa celare, coprendolo, il noumeno.

Così decide di toccare.

Scosta una stoffa affidandosi al Caso perché in quel circolare drappeggio non c’è un inizio né una fine. Scosta uno dei lembi che si accostano e si sovrappongono fino a comporre la percezione di quel ciclico rotolamento: scopre che quel piano disposto in curva, a presentarsi come una morbida ma compiuta dimensione centrica, è invece una centrifuga iconostasi laica.

Non è necessario strappare o operare dei tagli ma attraversarlo è pur sempre un penetrare. Entrare alla scoperta di una nuova dimensione apparentemente sregolata eppure invece sostanzialmente e rigorosamente ordinata dalla Disciplina.

Scopre la prima opera di Francesca Scalisi.

Anzi, Francesca Scalisi irrompe nella dimensione percettiva con le sembianze e con l’incedere dell’ancella portatrice di frutta nella “Nascita del Battista”, opera del Ghirlandaio: tra il conforto percettivo di una composizione classica, tra quella pacata rispettabilità dei morbidi velari ella è dissacrante, dissonante e moderna.

Eppure si compone dentro la quattrocentesca opera standovi perfettamente a suo agio: è “colei che avanza”.

Grazie all’azione della Scalisi il visitatore capisce che quelle opere sono il noumeno di cui s’era intuita l’esistenza: il risultato di un processo di svelamento di immagini mentali.

Immagini che sono parte del risultato di una stratificazione di immagini mediali, dialogicamente diversificate in quanto ognuna di esse risulta un diverso medium.

Il risultato? Istantaneo e ancestrale, a meno che non si abbia occhi, testa e pancia: ognuna delle opere della Scalisi è una Image.

Una circospetta ma circostanziata; una libera perché incondizionata; una indipendente dalle appartenenze espressive Image di valori immateriali. Quelle opere sono un intreccio tra gli studi culturali con la Storia dell’Arte; ma insieme con questo costituiscono anche un Visual Turn neoantropocenico di Sociologia, Storia Letteraria, Psicoanalisi, Filosofia e Teologia.

Quelle opere hanno i requisiti strutturali per stabilire un Linguistic, Cultural and Performative Turn finalmente innovativo tra i tanti che il Novecento abbia finora sperimentato.

Quale sarà il risultato dell’esperienza con le opere della Scalisi?

Il risultato è che si potrà tranquillamente appendere ad una parete una Picture di altri ma non sarà possibile appendere una delle Image della Scalisi; perché Image è ciò che sopravvive anche alla sua distruzione.

Dirà il visitatore che anche senza nulla avere appeso alla parete, dopo l’esperienza della Scalisi gli resterà l’Image della sua pittura dentro di sé.

I colori di Francesca Scalisi valicano le frontiere dell’arte per approdare nella terra della rappresentazione. Un passaggio che esprime la forza e il carattere di tratti che si memorizzano negli occhi di chi guarda e giungono infine al cuore. Inquietano i sensi dell’anima, scuotono interrogativi primordiali che colgono radici non sempre conosciute. Toni accesi che degradano in sfumature inedite per raccontare storie; un filo narrativo che esprime bisogni e speranze, accende dubbi e spiana ragionamenti istintivi in cerca di rasserenanti alibi. Una forza, quella dei colori, che da sola alimenta auspici e sollecita emozioni. Un viaggio sensoriale di cui si percepisce il cammino, ma che ciascuno può intendere in modo diverso accostando la propria anima alla potenza della trasmissione. Un approdo che muta lo sguardo, e disegna nuovi confini.

Guizza un bagliore di brace nelle opere di Francesca Scalisi

 

Prima di scrivere il mio modesto pensiero sulla tua arte, sento la tua voce che mi tocca il cuore

Trascrivo una poesia di Neruda

 

“Bianca ape,
ebbra di miele,
ronzi nella mia anima
e ti avvolgi in spirali lentissimi di fumo.

Sono il disperato,
la parola senza eco,
ha perso tutto,
dopo avere tutto avuto

Ultima gómena,
scricchiola in te la mia ansietà ultima.
Nella mia terra deserta sei l’ultima rosa.

Chiudi i tuoi occhi profumati.
Lì aleggia la notte.

Possiedi occhi profondi dove la notte aleggia.
Fresche braccia di fiore e grembo di rosa.
Sul tuo ventre è venuta a dormire una farfalla d’ombra.”

 

Nei tuoi lavori vi è racchiusa questa poesia.

 

La tua pittura rispecchia tutto il tuo stato d’animo; parole dipinte senza “eco”, parole intrise di

 

colore, con squarci e linee che fanno pensare chi guarda, intrisi di dolore.

 

Lo spettatore dinanzi ad un tuo dipinto rimane folgorato da quei baluginii di luce che irrompono

 

improvvisi nelle superfici bleu.

Tutto è avvolto nel mistero e il tuo mistero sta nel non svelare mai quel che pensi nel momento della creazione. La tua arte è poesia, poesia ermetica; ma tu sai, nel più profondo dell’animo, qual è il Leit-motiv che ti spinge a rappresentare.

Gli squarci di colore come lacerazioni nei dolorosi neri , negli amati rossi accesi e nei tuoi bleu felici.

Le tue pennellate sono delle spirali che si innalzano all’infinito verso un appagamento sensoriale.

Saranno i tuoi veri occhi misteriosi a infondere queste sensazioni, capaci di volare e superare la notte.

Pittura intrigante la tua, pittura colta. La percezione ti porterà a scoprire altre vie e sono certo che raggiungerai vette altissime!

Il tuo linguaggio pittorico occupa, con una invincibile tecnica, l’invisibile e la tua sensibilità farà vibrare gli animi di chi guarda e ammira le tue opere.

I tuoi segni geometrici diventano l’impalcatura dell’opera e la luce diventa sublime in mezzo al groviglio dei segni, dipanando ombre e poesia. Sei capace di controllare abilmente la costruzione segnica e far scaturire spazi quasi metafisici.

Sei capace di sospendere nell’aria il tuo canto melanconico e suadente come il “FADO” portoghese.

Mi piacerebbe se la visione della tua opera fosse accompagnata dalla musica

Perché la musica è una pittura che si ascolta e la tua opera è musica che penetra il cuore.

Sei un’artista che perpetua la tradizione pittorica del suo ambiente; Carla Accardi docet (pittrice che ho amato tanto) e tu sei la continuità, senza ombra di smentita, sei superba nel tuo fare arte!

Sei stata capace di rappresentare in modo ermetico l’esperienza umana come l’amore, la sofferenza e le tensioni contraddittorie della vita.

La tua pittura è intrisa anche di solitudine, situazioni esasperate e parossistiche in chiave filosofica-ermeneutica.

Non temi il confronto con la veridicità delle immagini, in quanto la frontiera della comparazione è travalicata in favore della tua visione ermetica.

Il tuo è un cammino erratico: vai avanti Francesca, sei nella direzione giusta!

Concludo con un altro brano poetico di Goethe:

 

“Certo il suo sguardo in giro ha poteri inauditi ma non fa che trasmettermi un dolce appuntamento”

Con stima

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